
The Whale (2022)
Uno dei film di cui si è parlato di più negli ultimi mesi, The Whale, ha una premessa molto semplice: dopo la morte del compagno, il senso di colpa porta un uomo ad autoflagellarsi fino all’estremo.
In questo caso, l’autoflagellazione consiste nel fare in modo che l’immagine disgustosa che il protagonista ha di sé stesso coincida con l’immagine che il mondo può avere di lui. Dalla morte del compagno, Charlie ha iniziato a mangiare in maniera compulsiva e all’inizio del film pesa più di 250 chili. È così vicino alla morte che, di fatto, quelli saranno i suoi ultimi giorni.
Il cibo e l’obesità come punizione auto-inflitta non è nulla di nuovo. Bisogna chiedersi se è giusto che la società abbia questa visione dell’obesità tanto quanto chiedersi se è comprensibile che il protagonista abbia questa visione di sé stesso. Alla prima risposta si deve rispondere inequivocabilmente no, se non altro perché la realtà è così sfaccettata che ogni riduzione si tramuta in un insulto. Ma alla seconda domanda non si può che rispondere sì proprio perché quella del disgusto1 è la reazione più comune che ha la società in questo caso ed è la ragione per cui Charlie ha scelto quella strada.
Il titolo è senza dubbio offensivo. È offensivo quando esce dalle labbra di un bambino, figuriamoci quando viene scelto da un autore e da una casa di produzione come l’A242. Un insulto così smaccato e in bella vista che sembra quasi un tentativo goffo e pre-senile di normalizzare qualcosa che normale non deve essere. Il titolo, però, funziona proprio per queste ragioni.
La balena a cui fa riferimento è il capodoglio bianco di Moby Dick, oggetto di un saggio che Charlie chiede a un personaggio di leggere mentre sta avendo un malore. Più avanti nel film si scopre che quel saggio era stato scritto dalla figlia del protagonista diversi anni prima, e Charlie vuole che sia l’ultima cosa che sentirà prima di morire. Hunter, lo sceneggiatore, e Aronofksy avrebbero potuto scegliere un libro differente e, di conseguenza, un titolo differente, ma non credo sarebbero riusciti a trasmettere né lo stesso concetto né lo stesso sentimento. Perché centrale al film c’è l’atroce capacità umana di odiarsi e allo stesso tempo sentire la necessità di combattere per sé stessi.
Tagliando la parte introduttiva, il saggio della figlia dice grossomodo questo:
Credo che tutto questo sia triste perché questa balena non ha emozioni e non sa quanto Ahab desideri ucciderla. È solo un povero enorme animale. E ho provato pena anche per Ahab perché pensa che la sua vita sarebbe meglio se solo riuscisse a uccidere questa balena, ma in realtà non sarebbe d’alcun aiuto.
Questo libro mi ha rattristato molto e ho provato molte emozioni per i personaggi. E la tristezza maggiore l’ho provata quando ho letto i capitoli noiosi che erano solo descrizioni di balene, perché sapevo che l’autore stava solo cercando di risparmiaci la sua storia triste ancora per un po’.
Come tutti noi, Charlie è tanto la balena bianca all’apparenza priva di emozioni quanto il capitano Ahab che la perseguita. In alcuni momenti di rara lucidità, poi, non è né l’uno né l’altra ma l’autore, una terza persona che ha consapevolezza che in questa carneficina non vi è nulla di necessario e che è in suo potere fare un passo indietro. Ripetendo le parole della figlia, e facendolo leggere da lei stessa nella scena finale, c’è la speranza che le parole di compassione e perdono che ha dedicato a Moby Dick, Ahab e autore lei le possa dedicare anche a lui.
Malgrado quanto si può leggere in giro, i veri problemi del film non riguardano tanto la rappresentazione dell’obesità: molti dialoghi suonano poco verosimili, alcuni personaggi sono poco più che abbozzati, alcune scene poco giustificabili. Questi problemi però non riguardano né il protagonista né Brendan Fraser, che da solo regge l’intero film e che riesce a trasmettere senza sforzo l’immagine di un uomo che seppure sconfitto resta comunque ottimista, un uomo che non può fare altro che autopunirsi ma che sa anche che tutto questo dolore può essere cancellato dalla consapevolezza che una cosa giusta, nella vita, l’ha fatta: la figlia. È questo desiderio che lo tiene precariamente in vita, ed è questa la ragione per cui malgrado sia il personaggio più prossimo alla catastrofe, è anche quello più vitale.
Fermo restando che ognuno di noi è innescato da tematiche differenti, The Whale è un film in cui l’obesità è solo un elemento sullo sfondo. Quando questo passa in primo piano lo fa con delicatezza perché lo fa attraverso gli occhi di un personaggio che si odia tanto quanto si ama e che ha l’unico vero difetto di non riuscire a perdonarsi.
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Disgusto che non va declinato solo come ripugnanza, ma anche come scherno, stupore, ecc. ↩
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La sua offensività sembra quasi amplificata dalla scelta di un font così classico.La scelta dell’ITC Century Book credo sia dovuta principalmente al fatto che questo era il font usato nella prima edizione di Moby Dick, ma sembra in qualche modo legittimare quello che nel migliore dei casi può essere definito un insulto infantile. ↩